Su ciò di cui non si è in grado di parlare si deve scrivere un post (Omar Souleyman, Wenu Wenu)

QuinnSharif

Della fantasmatica compagine che costituisce la crew di musicanoiosa sono certamente il meno titolato a parlare dell’ultimo disco di Omar Souleyman, tanto per la vaghezza della mia conoscenza della discografia di quest’ultimo quanto per la scarsa profondità della mia conoscenza della discografia del suo più recente produttore (Kieran Hedben). In sostanza, non ho un giudizio su nessuno dei due, né sul mix delle due entità (non da elargire da sobrio, quantomeno).

Posso dire però che Wenu Wenu (canzone) è la Party Hard del 2013 in Siria. Certo, in Siria nel 2013 hanno altri cazzi a cui pensare che non eleggere la Party Hard locale dell’anno, come anche negli Stati Uniti nel 2001 avevano altro a cui pensare che non quale sarebbe potuta essere l’eredità musicale, ma soprattutto ideologica a livello di traviamento di giovani menti, di Party Hard. Ma non è questo il punto. Il punto è che quando ascolto Wenu Wenu (album) la mia impressione su Souleyman, maturata – si fa per dire – nei vaghi ascolti di cui sopra, si approfondisce e acquisisce una carica di rimembranze tutta speciale. I precedenti dischi di Souleyman mi fanno pensare alla radio dell’autista di jeep che nel 2001 ci portò a spasso per il Sinai, me, mio fratello, mia mamma e mio babbo. E fin qui non è difficile crederlo: per l’autista egiziano qualsiasi brano di Omar Souleyman nel 2001 (ammesso che fosse già in circolazione) era senza dubbio il Party Hard del 2001, ammesso che fosse a conoscenza di Andrew WK, cosa di cui nemmeno io potevo fregiarmi nel 2001. Probabilmente, se nel 2001 il suddetto autista avesse tenuto un blog musicale dedito ai pregiudizi musicali (tipo questo), avrebbe scritto che Andrew WK nel 2001 era l’Omar Souleyman americano del 2001, caricando il suo post su una piattaforma bruttissima e psichedelica tipo Geocities o altri reperti dell’internet del 2001. Bruttezza e psichedelia (ma anche piattaforma e 2001) che sono un po’ la cifra stilistica, qui – dove per “qui” si intende “Italia 2013, interno giorno, musica siriana in diffusione da un laptop”. Cifra stilistica post-2001 è anche quell’idea platonica di musica araba – rigorosamente in bassissima fedeltà – che ti ritrovavi nei film ideologicamente sospetti nel momento in cui qualche islamico stava tramando contro l’Occidente, così che nemmeno i ciechi se lo perdessero (ci sono ciechi che vanno al cinema: lo so perché mio fratello – che abbiamo lasciato nella jeep ma poi ci torniamo – li accompagnava durante il suo anno di servizio civile da culattone raccomandato).

Io il servizio civile o militare l’ho saltato a pié pari, invece, ma nel 2001 ero su quella jeep nel Sinai con mio fratello, mia mamma e mio babbo. A un certo punto l’autista, probabilmente secondo una routine rodatissima pensata apposta per donare falsi ricordi ai turisti europei, ci disse che avremmo effettuato una deviazione in un campo minato, residuo della guerra con Israele. Ecco, quando ascolto Wenu Wenu (album) non penso più solo alla musica della jeep egiziana nel Sinai, musica da film post 9/11 ideologicamente sospetto, ma penso proprio al momento preciso e incasinatissimo in cui l’autista deviò nel campo minato e cominciò a prendere apposta delle buche enormi, penso a mia mamma che gli urlava di smettere provando a sovrastare il volume della radio, mio babbo che provava a calmarla, e nel frattempo l’autista, me e mio fratello che ridevamo tantissimo, come se avessimo preparato la messinscena tutti d’accordo, improvvisamente uniti in un momento casuale e dissociato. Proprio in quel momento lo stereo dell’autista, che prima di allora mandava Omar Souleyman pre-Wenu Wenu, cominciò ad emettere – rigorosamente in bassissima fedeltà – musica che ricordo gommosa ed eccitatissima, pronta per diventare mia, non più soltanto generica musica mediorientale, ma qualcosa di sublimato e universale. In Wenu Wenu (album) accade tutto ciò, universale-gommosa-eccitatissima-sublimata, forse perché sono io a volergli leggere dentro cose inesistenti dal momento che non so leggerci nient’altro, forse per il contesto da dancefloor piena di botta, e quindi prossimo alla morte come può esserlo l’esperienza di una finta gita presso i campi minati. Si tratta di quegli istanti bellissimi durante i quali non sai cosa il DJ abbia messo su e non vuoi saperlo, in cui puoi solo trovarti presso l’imbarazzante intersezione fra lo svitalampadine indiano, l’incidente stradale e il sirtaki di Anthony Quinn. Anthony Quinn che sebbene messicano interpretò un arabo che con l’aiuto di un inglese conquista la Siria in quel film famoso del 1962 con Omar Sharif, reso poi celebre da un film in cui sebbene egiziano interpretò un russo, anticipando così di cinquant’anni buoni Four Tet che si finge siriano e conquista l’Inghilterra e i suoi dancefloor pieni di russi.

Informazioni su pucci

no, non ho detto noglia.
Questa voce è stata pubblicata in cose che non conosco, dischi 2013, famosi per i motivi sbagliatissimi, recensioni sbagliate e contrassegnata con , , , . Contrassegna il permalink.

Lascia un commento